La Patagonia è una pianura sconfinata, arsa dal sole, spazzata dal vento. Una distesa di pietre, arbusti e polvere tra le Ande e l’oceano Atlantico. Pagine e pagine sono state scritte in questi luoghi: storie di uomini e donne, di montagne, di mare, di pionieri e fuorilegge, di gauchos, di fughe, di esili e di solitudine.
Ripercorrendo quei momenti non posso che rivedere quel cielo terso enorme che ti schiaccia, quelle nuvole dense e improvvise che ti si rovesciano addosso, sentire quel vento mai quieto in quello spazio infinito che qualcuno definisce vertigine orizzontale.
Strade deserte che come lame di asfalto corrono verso l’orizzonte. Puoi viaggiare per ore senza incontrare nessuno, senza vedere niente se non la pampa e qualche guanaco incuriosito.Mi dicevano: “Ti annoierai nella pampa, percorrendola interamente in auto”. Penso che la noia sia parte fondamentale di quei luoghi, non puoi ingannarla, è lì che ti aspetta in mezzo a tutta quella polvere.
La strada per Rio Mayo

La Ruta 40 è una strada che unisce il nord al sud della Patagonia. E’ una lama dritta che taglia la Pampa.
La destinazione è Rio Mayo, dentro di me rileggo le pagine di Patagonia Express di Sepulveda:
“Ritorno sempre a Río Mayo, una città della Patagonia distante un centinaio di chilometri da Coyhaique e altri duecentocinquanta da Comodoro Rivadavia. Vi torno sempre, e la prima cosa che faccio quando scendo dall’autobus, dal camion o da qualsiasi altro mezzo di trasporto che mi lascia all’incrocio, è chiudere gli occhi per non venire accecato dall’eterno polverone, e tapparmi le orecchie per convincermi che sono davvero arrivato. La faccenda degli occhi chiusi si risolve aprendoli lentamente, dando tempo alle ghiandole lacrimali di abituarsi alla polvere. La faccenda delle orecchie, invece, serve a resistere al bombardamento di decibel che i pazienti abitanti del luogo sopportano, dalle sette del mattino alle sette di sera, fin dal 1977.
Dalla caserma del reggimento Fucilieri del Chubut partono atroci ritmi militari, ai quali per maggiore tormento hanno aggiunto la voce di Julio Iglesias. Dal 1977 non ci sono galline a Rio Mayo.”

Rio Mayo è un incantevole paesino polveroso attraversato dalla ruta 40. Le strade sono semi-sterrate, con edifici bassi spesso fatiscenti dipinti con colori accesi. Tutto intorno la pampa. L’Hotel San Martin è poco prima della stazione di rifornimento della piccola città.

“È una grande casa d’angolo a un solo piano. Attraverso la nuvola di polvere che passa ininterrottamente per strada, vedo che c’è una scala appoggiata alla facciata, e su di essa un tizio che dà una mano di vernice al cartello che identifica l’immobile. "Ehi, amico. È lei il padrone dell’hotel?” gli grido dal basso. "Se fossi il padrone non sarei qui," mi grida lui dall’ alto. "Può chiamare il proprietario?" grido di nuovo dal basso. "Non c’è. Non c’è nessuno. Entri e si serva un mate,” grida il pittore. Gli obbedisco, e mentre spingo la porta  [..] La sala da pranzo è come l’ho lasciata due anni fa. Gli stessi tavoli di ferro con il ripiano in fòrmica, le stesse sedie di legno, e su ogni tavolo un vasetto civettuolo con rose e garofani di plastica. Dietro il banco di legno sono allineate le bottiglie di vino, di grappa e di acquavite di canna. [...] . L’Hotel San Martín. Fino al 1978 il luogo fungeva da magazzino per il Municipio. Quell’anno arrivarono a Río Mayo due persone condannate al confino per motivi politici: il turco Gerardo Garib, che di turco non aveva nulla perché era argentino, di Buenos Aires, sindacalista non corrotto dal peronismo e discendente di palestinesi, e sua moglie, la turca Susana Grimaldi, che come lui non aveva nulla di turco – a parte il fatto di essere  sposata con il turco –, era uruguaiana, di Colonia, insegnante di musica, e sapeva maledire meravigliosamente bene nell’italiano dei suoi antenati.”
Vento e polvere
Giornata molto ventosa, se può esistere una giornata che non lo è. In Patagonia il vento freddo arriva da Sud e quando soffia non dà tregua. Non riesci a difenderti in nessun modo. La sabbia ti arriva contro e si infila sotto gli occhiali, dentro i vestiti e perfino nelle tasche.
Siamo sulla penisola Valdes, sulla punta Sud, al faro di punta Delgada.
Scendo con difficoltà dall’auto per il vento e la sabbia. Davanti a me la ragazza che gestisce il faro. Mi lamento del troppo vento cercando di farmi capire. Lei mi guarda e con una semplicità disarmante si limita a dire “Patagonia señor, Patagonia”.

Chi ti manda?
Puerto Pyramides è la parte più densamente abitata della penisola Valdes. Circa 20 case, due tre bar e due tre ristoranti. Non abbiamo pesos e la distanza dal primo centro abitato con un bancomat è considerevole.
Entriamo in un ristorante e proviamo a chiedere ad un cameriere se ci può cambiare della moneta. In sud america si dice che in qualche modo tutto si risolve, basta chiedere. Il cameriere ci guarda e con un mezzo sorriso dice:
Habla con Juan, di che te manda Cacho
Capisco che qui la cosa più importante non è chi sei o qual è il tuo problema, ma chi ti manda.

Chi ti manda? Parte seconda
La macchina dopo 4-5 giorni di sterrato accusa qualche problema. Non è un fuori strada  e la possibilità di toccare il terreno con il sotto dell’auto, considerando la qualità delle strade, è piuttosto alta.
Da qualche km ad ogni buca sentiamo un colpo sordo provenire da qualche parte sull’anteriore dell’auto.
Chiediamo ad un benzinaio, che in Patagonia è una specie di punto di aggregazione, se c’è un meccanico affidabile in zona. Ci fanno un disegno dietro la ricevuta del pieno di benzina e ci dicono di dire che ci mandano i ragazzi del Petrobras.
La zona indicata è leggermente in periferia. Strade polverose, macchine scassate e gente per strada.
Dopo un pò di tentativi senza successo vedo un’auto completamente smontata vicino all’ingresso di un piccolo spiazzo chiuso fra le case. Sul muro una scritta a bomboletta appena leggibile ma indecifrabile.
Entriamo nel cortile. Sulla sinistra una stalla improvvisata con qualche legno e qualche lamiera, dentro un cavallo nero. Nel mezzo al piazzale un grosso mastino che dorme al sole. Più avanti un’auto con il cofano aperto. Un uomo con una tuta blu che ricorda quella di un aviatore, capelli bianchi folti e un aspetto sicuramente più tedesco che argentino, sta lavorando sull’auto.
Abbiamo solo un nome: Hector.
“Hola, señor Hector?”
Esce dall’auto, ci guarda da lontano e chiede:
“Chi te manda?”

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